25 Ottobre 2009

STORIA E STORIE


A pagina 3, il tema viene approfondito con un’intervista a Sergio Chiarotto, preside del liceo cittadino. Il titolo è un po’ allarmistico: “La scuola boccia la storia locale!”. Il giornalista fa percepire tutto il suo disappunto (“il silenzio della scuola locale sul territorio pordenonese fa specie”, “il liceo poi…”), incalza il preside con domande serrate, prova anche a forzare il senso delle sue risposte: “Quindi, tutto è più importante della storia del territorio di appartenenza. Vuole dire questo?”.
Ma, nonostante la buona lena del giornalista, le risposte del preside non mi hanno colpito negativamente. Le ho trovate un esercizio di buon senso: nessuna preclusione sulla storia locale in quanto tale, ma solo, realisticamente, la necessità di operare delle scelte, perché non si può fare tutto. Quindi, anziché ai localismi, è bene che la scuola guardi anzitutto alle “esperienze più significative dell’umanità”, alla “storia universale”, e dentro questa cornice trovino magari rilievo alcuni spunti di storia locale. I quali, peraltro, potrebbero essere proposti anche da altri soggetti, senza far pesare invariabilmente sulla scuola tutte le incombenze.
Non solo non mi colpisce in negativo tale impostazione; direi anzi che è la posizione del giornalista ad essere viziata da qualche equivoco di fondo. Quello tra storia e memoria, o tra storia e cronaca, per esempio. Certo, sarebbe bene che i pordenonesi conoscessero padre Marco d’Aviano; ma è questo un esempio ben scelto, per parlare di storia locale? In realtà, mi dico, non deve essere la presenza di un avianese a rendere significativo per noi l’assedio di Vienna; semmai, al contrario, è l’importanza su scala europea e mondiale dell’espansionismo ottomano a darci l’occasione per ricordare che, tra i protagonisti di quelle vicende, vi fu anche un illustre conterraneo.
La storia non può essere solo il ricordo di fatti e personaggi isolati, quasi in forma aneddotica (per cui è storia locale quando si occupa dei nostri concittadini), e credo che rimarcarlo non sia una mera sottigliezza, la materia per discussioni puramente accademiche. Ne ho avuto la riprova qualche giorno fa, a Villa Varda di Brugnera, in una manifestazione tesa a ricordare la battaglia di Lepanto. Ora, a parte alcune “stranezze” sul piano filologico (una rappresentazione in uniformi dell’esercito veneziano “de tera” di fine Settecento, per celebrare una battaglia navale del 1571), sono stati narrati con trasporto e viva partecipazione alcuni episodi della storica battaglia, ricordando anche il ruolo svolto dal conte Silvio di Porcia e Brugnera. Ma una ricostruzione di manovre navali e atti di eroismo, se resta solo cronaca e non viene contestualizzata in una prospettiva autenticamente storica, rischia di prestarsi a facili strumentalizzazioni: ecco che la battaglia è stata salutata come un motivo dell’orgoglio veneto, secondo slogan che sembrano avere a cuore, più che la conoscenza storica, ben più attuali e contingenti messaggi politici. Le autorità presenti hanno parlato di Lepanto come del salvataggio, operato “da noi veneziani, da noi veneti”, della nostra civiltà cristiana dal rischio di un’islamizzazione.
Storicamente, però, tale ricostruzione è quantomeno discutibile. Poteva essere Venezia il baluardo della Cristianità? Una città che sarebbe stata colpita dall’interdetto solo una trentina d’anni più tardi? E se in atto vi era lo scontro tra Cristianità e Islam, perché la Francia tendeva, in quegli anni, ad appoggiare gli Ottomani? Perché gli spagnoli lasciarono che il peso maggiore della battaglia gravasse sulla sola Venezia?
Al solito, la storia è sempre più complessa di come la si racconti. Più che la difesa di una cultura e di una religione, più che lo “scontro di civiltà”, in gioco vi erano interessi commerciali: la relativa supremazia su una parte del Mediterraneo, che comunque non avrebbe impedito né ai Veneziani di conservare i loro fondachi sulle coste orientali, o viceversa ai Turchi di continuare a raggiungere, con le loro mercanzie, le coste adriatiche. Spagna e Francia, su opposti versanti, riponevano in questa vicenda un interesse più marginale, ovvero impedire che qualcuno ne traesse una posizione di eccessivo vantaggio. Nel frattempo, il Mediterraneo cominciava a perdere importanza strategica, a favore dell’Atlantico; e in ogni caso, la battaglia di Lepanto non segnò affatto il definitivo venir meno della spinta ottomana.
Così, allargando la prospettiva rispetto alla cronaca di un’unica battaglia, ci mettiamo nelle condizioni di affrontare un problema storico secondo unità di misura più adeguate. La storia locale non può essere l’aneddoto, la curiosità, ma il riflesso su scala più circoscritta delle vicende e dei processi che hanno coinvolto i grandi gruppi umani. Altrimenti, è sempre presente il rischio di scivoloni nella mitizzazione di un episodio, nell’epopea. E da qui alla pura propaganda, all’uso e abuso della storia per fini meramente ideologici, il passo è davvero breve.

Daniele Bertacco
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