8 Febbraio 2010

QUALE FUTURO per l’Università a Pordenone


ALCUNE CONSIDERAZIONI OBBLIGATE SUL FUTURO DELL’UNIVERSITA’

Definiamo anzitutto la cornice entro cui affrontiamo oggi questa riflessione.

Si tratta di una cornice che mette oggettivamente in serio pericolo la nostra riflessione, dal momento che la riforma avviata dal MIUR sotto al guida Gelmini, – all’insegna di una ristrutturazione che pare avere come principale denominatore il risparmio – più che ad una avanzata pare preludere a tagli anche strutturali, in particolare per le sedi decentrate come Pordenone. Qui non c’entra la parte politica ma il buon senso: la progressiva riduzione di risorse per l’università è un disastro per il futuro del nostro paese. Ed è iniziata ancor prima di questo governo, anche se solo adesso è diventata organica e strumentale.


Ad ogni modo per comprendere appieno la vicenda delle cosiddette “sedi staccate”, incluso il consorzio universitario di Pordenone, credo sia utile fare un passo indietro e capire in che cosa consiste la riforma del DM 270. Tale Decreto, che sostituisce il DM 509, riconfigura l’assetto dei corsi di laurea, stabilendo i criteri che consentono l’attivazione dei corsi di studio ed il loro inserimento ufficiale nella banca dati dell’offerta formativa universitaria approvata dal MIUR.

Mi rendo conto che entrare nel dettaglio del decreto sia alquanto complicato, ma su un punto è bene fare chiarezza perchè tutti in sala capiscano di cosa stiamo parlando.

In base al DM 270 sono stati ricalibrati i cosiddetti “requisiti minimi quantitativi” della docenza. In pratica, secondo tali criteri, una facoltà può attivare o tenere aperto un corso di laurea solamente se ha un certo numero di docenti di ruolo. I rapporti sono i seguenti:

– servono 12 docenti di ruolo (altrimenti detta docenza strutturata) per ogni corso di laurea triennale;

– servono 8 docenti di ruolo per ogni corso di laurea specialistica

Fino a poco tempo fa questi “requisiti minimi” non erano strettamente vincolanti, e fra uno sconto e una deroga si era sempre riusciti a tenere in piedi il carrozzone. Con il DM 270, invece, il Ministero ha inteso dare un giro di vite, applicando i criteri in maniera rigida e senza sconti.

L’esempio concreto è il taglio del “nostro” corso di laurea in Servizio Sociale della facoltà di Scienze della formazione. Prima dell’entrata in vigore del DM 270 la facoltà, che è composta da 51 docenti strutturati (fra professori ordinari, professori associati e ricercatori), aveva la seguente offerta formativa:

– corso di laurea triennale in scienze della comunicazione (sede di Trieste)

– corso di laura specialistica in scienze della comunicazione (sede di Trieste)

– corso di laurea “vecchio ordinamento” in scienze della formazione primaria (sede di Trieste).

– corsi di laurea triennale in servizio sociale (sede di Trieste)

– corso di laurea triennale in scienze dell’educazione (sede di Portogruaro)

corso di laurea triennale in servizio sociale (sede di Pordenone)

– corso di laurea specialistica in servizio sociale (sede di Pordenone)

– corso di laurea triennale in scienze dell’educazione (sede di Trieste)

– corso di laurea specialistica in scienze dell’educazione (sede di Trieste)

– corso di laurea in politica del territorio (sede di Gorizia)

Dopo l’applicazione del DM 270 la facoltà ha dovuto chiudere i corsi di Pordenone, Gorizia e anche quelli di scienze dell’educazione a Trieste (evidenziati in giallo), dimezzando di fatto la propria offerta formativa. E’ chiaro dunque che a queste condizioni i primi corsi ad essere sacrificati risultano quelli delle sedi periferiche (con la sola eccezione di Portogruaro giustificata dagli ingenti finanziamenti/contributi che quella sede versa ogni anno alla facoltà).

Il senso del DM 270, in linea di principio, è condivisibile: non è possibile aprire nuovi corsi di laurea se prima non è garantita una congrua copertura di docenza di ruolo.

Bisognava insomma porre rimedio al mal costume di aprire corsi di qualsiasi indirizzo (a volte molto discutibili sul piano dei contenuti) e di fare sistematico ricorso a docenza “a contratto” (con assegnazioni molte volte “allegre”…). Evidentemente c’è stato un momento in cui la casta dei “baroni” universitari è sfuggita al controllo dei governanti, ed ha attivato una miriade di corsi e corsetti nelle sedi più disparate e non sempre con finalità formative.

Il problema, tuttavia, è che ora il ministero ci è andato con la mano pesante e, soprattutto, in maniera indiscriminata, penalizzando anche quelle buone esperienze che non solo si sono rivelate positive, ma hanno anche rappresentato una vera e propria boccata d’ossigeno per le casse di molti atenei in rosso (finanziando progetti di ricerca oppure posti in ruolo, proprio come avvenuto sia a Pordenone, sia nella vicina Portogruaro).

Una nuova nota ministeriale del 4 settembre scorso, la n. 160, ha ulteriormente inasprito la politica sulla governance degli atenei, anche con riferimento alle sedi staccate, auspicando una loro diminuzione e ponendo l’obiettivo di portare gli studenti nelle sedi universitarie e non viceversa.

Insomma: attorno alle sedi periferiche non tira una buona aria.

Nel breve periodo si tratta dunque di tenere il punto, ma con ogni probabilità sul medio periodo la sfida è quella della riorganizzazione, con una forte inversione del decentramento.

C’è da augurarsi almeno che questo orientamento ci costringerà, come unico aspetto positivo, a riorganizzarci e a razionalizzare. A decrescere nel modo giusto, insomma.

C’è da dire che, come molti sapranno, sulla validità del decentramento universitario il dibattito è decisamente variegato. Per ragioni che non si debbono trascurare.

In queste settimane ho avuto modo di ascoltare diverse opinioni dal mondo accademico anche locale e in sintesi, magari uscendo dal “politically correct”, posso riassumere così:

Sedi come quella di Pordenone (ma discorso analogo si può fare anche per la vicina Portogruaro presso cui studiano numerosi residenti della nostra provincia) rappresentano senz’altro una risorsa per il territorio, sia perché consentono a molte famiglie di contenere i costi per la formazione dei loro figli (mandarli a Padova o a Trieste significherebbe accollarsi spese di vitto e alloggio molto più ingenti), sia per l’indotto (posti di lavoro, ricerca, cultura, ecc.). Si può aggiungere a questo anche la dimensione della formazione continua: non mancano infatti lavoratori residenti in zona, che mai avrebbero potuto permettersi l’iscrizione ad un corso universitario per ovvi motivi logistici, si sono rimessi in gioco frequentando l’università approfittando di averla “sotto casa”: la percentuale di laureati adulti è notevole e merita interessanti considerazioni anche di natura sociologica.

Accanto a queste virtù positive non mancano però anche molte indicazioni di segno opposto.

1. Il decentramento universitario è produttore di non-sapere

à Le lezioni si fanno, in grandissima maggioranza, come “supplenze” retribuite extra o ingaggiando docenti esterni al sistema universitario, perlopiù fuori dal circuito della ricerca.

à La proliferazione delle sedi universitarie periferiche rischia di determinare una sorta di “provincializzazione” dello studio universitario e della ricerca, con una discutibile parcellizzazione di risorse e un conseguente scadimento della qualità complessiva dell’offerta. Avere tutto in casa, dai servizi primari all’università, rischia di ostacolare la mobilità degli studenti e li lega al loro contesto territoriale e sociale in maniera forte, privandoli di esperienze di vita e culturali che si possono ricavare da esperienze “fuori sede” (in altre città italiane o, meglio ancora, all’estero).

2. Le sedi periferiche non potranno mai diventare sede di Ricerca

à perchè manca una “massa critica” polidisciplinare di studenti, fondamentale per il confronto e la crescita culturale

à perchè le risorse sono poche e vanno razionalizzate; in FVG la presenza di due atenei delle dimensioni di Udine e Trieste in relazione alla popolazione regionale è già un’anomalia; due sedi universitarie sono già troppe per consentire una grande qualità della Didattica e della Ricerca; bisognerebbe investire le scarse risorse che ci sono in uno sviluppo armonizzato di Trieste e Udine, eliminando inutili doppioni e mettendo in rete quel che resta. Poi la concorrenza, sano stimolo di sviluppo, la si fa con Padova e con tutti gli altri atenei.

3. Tenuto conto dei costi significativi che i soggetti pubblici e privati sono costretti a sostenere per mantenere sedi, corsi, docenti, personale amministrativo e quant’altro, il risparmio che i soggetti del territorio ottengono è assolutamente relativo e il risparmio ottenuto dalle famiglie potrebbe essere compensato: un ragazzo che ha davvero voglia di studiare non teme la trasferta a Udine o Trieste e alla collettività costerebbe forse relativamente meno dare una borsa di studio, basata su merito e ISEE, piuttosto che tenergli in piedi un corso fuori dalla porta di casa.

LA RICERCA

Aldilà di queste valutazioni sul decentramento, noi tutti sappiamo che se ci limitiamo a parlare di spazi per studi, per aule, parcheggi, sede di rappresentanza non rappresentiamo il core dell’essenza di Università.

Come ho avuto modo di constatare dialogando con molti soggetti, era abbastanza chiaro anche dall’inizio dell’avventura pordenonese che non ci può essere radicamento e un rendimento chiaro per l’università in un territorio se non si creano le condizioni per istituire i Dipartimenti, luoghi della ricerca e della formazione universitaria superiore, luoghi dai quali possono generare “spin off” e concreti collegamenti con il territorio produttivo inteso in senso ampio del termine, anche come produzione di cultura critica. Lo statuto universitario esprime chiaramente questo orientamento là dove che:

– L’attività di ricerca qualifica il docente universitario e ne costituisce fondamentale dovere (art.42)

– L’Università crea le condizioni per la realizzazione dell’attività di ricerca scientifica. (art43)

In questa direzione, vista la debolezza di ciascuna facoltà, riprendendo un’idea che già qualche anno fa era stata lanciata, a mio modesto parere si potrebbe dunque puntare ad offrire al territorio del Pordenonese la spinta ad istituire un Centro Interdipartimentale quale luogo privilegiato per la ricerca interdisciplinare a Pordenone in stretto collegamento con il Polo Tecnologico.

A PN insomma si dovrebbero cogliere l’opportunità di unità stretta di luoghi tra discipline diverse per un approccio olistico alla ricerca e di forte cross-fertilization tra sanitari, ingegneri, economisti, esperti di nuove forme di formazione evitando la frammentazione.

Sono queste peraltro le tendenze attuali: fare di tutto per favorire la condivisione giornaliera degli esperti dei vari rami del sapere.

Guardando al futuro mi sentirei perciò di avanzare la proposta che l’Università di Udine faccia propria e giri come sfida alle autorità locali di una bando per un progetto per il “Nuovo Interdipartimento”; una vision multidisciplinare ed architettura consona a laboratori misti, biblioteche e quant’altro ci serve per fare ricerca.

Purtroppo però anche sugli sviluppi della ricerca occorre essere chiari:

Con il disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 1 agosto il Ministro Gelmini, senza essersi confrontato né con le Organizzazioni Sindacali, né con le Organizzazioni Studentesche ha dato inizio ad un ennesimo stravolgimento dell’università e soprattutto della ricerca. Sono state cambiate norme importanti e soprattutto è partito con una delega di un anno “per il riassetto normativo sostanziale e procedimentale delle disposizioni vigenti in materia di ordinamento universitario”. In sostanza i criteri direttivi a cui si attiene la delega sono quanto mai vaghi e pericolosi, prevedendo accorpamenti, cambiamenti e semplificazioni di norme e regolamenti.

Inoltre, il ministro con poche righe di questo disegno di legge, ha distrutto quello che funzionava nella ricerca pubblica contraddicendo tutte le promesse fatte fin qui fatte ai ricercatori. L’articolo 12 del DDL si intitola riforma della delega in materia di riordino degli enti di ricerca. La legislatura precedente una delega di riforma l’aveva varata e il lavoro era stato fatto in modo condiviso tra maggioranza ed opposizione: infatti fino ad ieri il Ministro e un Senatore cosegretario della Commissione VII del Senato affermavano che si sarebbe andati avanti sulla base di quella delega.

Con questo DDL verrebbe data al governo mano libera per qualunque accorpamento o scorporo e ciò distruggerebbe il valore di azione volta a dare autonomia statutaria agli enti, sia pure solo a quelli vigilati da MIUR, ed autonomia ai ricercatori sulla base di quanto la stessa Commissione Europea attraverso la Carta dei ricercatori raccomandava.

CONCLUSIONI

Aldilà dunque di tutti gli sforzi condivisi per uno sviluppo prima e per una tenuta ora, ci troveremo dunque con ogni probabilità di fronte al rischio della chiusura inevitabile

La partita ovviamente è aperta. Il nostro compito come sistema territoriale è proseguire nello sforzo economico già intrapreso dai soggetti coinvolti nel sostegno. Una chiamata in corresponsabilità di altri soggetti del territorio, come proponiamo nell’odg di oggi, diventa giocoforza opportuna.

Eppure questa vicenda dovrà vedere le forze del territorio sforzarsi di varare insieme anche una linea di spinta politica. Il futuro dell’Università a Pordenone è infatti appeso a decisioni per larga parte esterne al territorio.

Su questo punto, ogni iniziativa capace di superare gli steccati del sistema bipolare potrà forse aprire brecce per il futuro della nostra realtà universitaria e quindi sul futuro della nostra collettività.

Giorgio Zanin

Capogruppo PD in Consiglio Provinciale
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