30 Dicembre 2011

Le sfide che ci riserva il futuro (di Alessandro Maran)

Il mondo è cambiato. Quando gli storici, tra cent’anni, guarderanno ai primi anni del XXI secolo, l’evento più rilevante probabilmente non sarà la crisi finanziaria che (ha cause complesse e ) da oltre tre anni attanaglia il mondo occidentale. La storia più importante sarà «the rise of the rest»: la crescita, il risveglio, di paesi come la Cina, l’India, il Brasile, la Russia, il Sudafrica, il Kenya e moltissimi altri. In altre parole, la più grande uscita di massa dalla povertà nella storia del mondo. L’esempio più spettacolare è, ovviamente, quello della Cina, che regolarmente riporta una crescita a due cifre e che nel 2009 ha superato gli Usa come il più grande mercato dell’auto. Si tratta di una crescita che è più visibile in Asia (l’India è appena un po’ più indietro della Cina e sta crescendo con tassi che le economie più sviluppate possono solo sognare), ma non è confinata all’Asia. Più di trenta paesi africani (due terzi del continente) nel 2007 sono cresciuti a un tasso superiore al 4% annuo. Mentre la classe media in Cina e in India sta crescendo al ritmo di 50 milioni l’anno, creando un mercato per i prodotti asiatici finora diretti verso ovest, in Occidente la classe media patisce le ristrettezze economiche e l’incertezza; e i poveri il pericolo di essere lasciati indietro. Ci attende un periodo in cui dominerà l’incertezza. Ci attendono quasi certamente shock e sorprese. E in alcuni casi l’elemento sorpresa è solo una questione di tempo: una transizione energetica (da un tipo di combustibile, i combustibili fossili, ad un altro, alternativo) è inevitabile; le sole domande sono quando e quanto improvvisa o quanto sopportabile sarà la transizione. Il sistema internazionale costruito dopo la seconda guerra mondiale tra qualche anno sarà quasi irriconoscibile. Il che implica uno spostamento nel balance of power. Con la crescita della Cina, dell’India e la crescente influenza di nonstate actors (del mondo degli affari, organizzazioni religiose, tribù, reti criminali), con l’economia globalizzata e il trasferimento di ricchezza e potere economico (senza precedenti nella storia moderna, quanto a dimensione, velocità, direzione), in corso dall’Ovest all’Est del mondo, sta emergendo un sistema globale multipolare, più instabile di quelli bipolare o unipolare. La transizione vecchio al nuovo ordine ancora in formazione non sarà priva di rischi. E l’invecchiamento della popolazione nel mondo sviluppato, i vincoli crescenti circa l’energia, il cibo, l’acqua, le preoccupazioni circa il cambiamento climatico, limiteranno quella che storicamente è stata un’età di prosperità senza precedenti. L’Europa molto probabilmente continuerà a distanziare le potenze emergenti per ricchezza procapite, ma faticherà a mantenere tassi di crescita robusti perché diminuirà la quota della popolazione in età lavorativa. E non è scontato che l’Europa riesca a superare le sfide economiche e sociali causate dal declino demografico, a partire da un welfare molto radicato che non siamo più in grado di sostenere come prima. Un successo nell’integrazione delle minoranze mussulmane potrebbe espandere le dimensioni delle forze lavoro produttive e evitare la crisi sociale. L’assenza di sforzi per attenuare le sfide demografiche potrebbe condurre invece, nel lungo termine, al declino. Ovviamente, non è scritto da nessuna parte che il declino, la decadenza, un destino di minor potere regionale e globale, sia un esito inevitabile. Il nostro futuro è necessariamente legato a quello dei nostri partner europei. I nostri alleati americani, nonostante tutto, hanno le dimensioni e le risorse per rimanere (come ha chiarito Hillary Clinton nel lungo articolo pubblicato da Foreign Policy, America’s Pacific Century) al centro della politica mondiale. L’Europa si trova invece frammentata e divisa di fronte a un mondo grande nel quale le potenze asiatiche stanno spostando gli equi libri mondiali verso il pacifico. Nel XXI secolo, gli stati nazionali europei, costituiti da decine di milioni di cittadini, sono semplicemente troppo piccoli per poter influenzare l’ambiente internazionale nel quale vivono. È proprio dalla consapevolezza di questo comune destino che bisogna far ripartire, con più decisione, il processo d’integrazione europea. C’è chi ha paragonato la crisi in corso ad una guerra vera e propria; e da questo terzo terribile conflitto (questa volta sistemico e non bellico) l’Europa può uscirne rafforzata: « quel che non ti uccide, ti rende più forte». Tuttavia, come ha ammonito il Presidente Giorgio Napolitano, «bisognerà rivedere molte cose, bisognerà cambiare molte cose nel modo di governare, nel modo di produrre e di lavorare, nel modo di vivere e di comportarsi di tutti noi. E naturalmente indispensabili saranno spirito di sacrificio e slancio innovativo». Non è un caso che in copertina su Time della settimana scorsa ci sia Giorgio Marchionne, «The Man Who Saved The Car Business». La tecnologia, il ruolo dell’immigrazione, i miglioramenti nella sanità pubblica, norme che incoraggino una partecipazione più grande delle donne nell’economia sono alcune delle misure che potrebbero cambiare la traiettoria delle tendenze attuali che puntano ad una crescita minore, a tensioni sociali crescenti e ad un possibile declino. Il ruolo della leadership sarà cruciale circa gli esiti. I leader e le loro idee contano. E, come scrive Alfredo Rechlin (L’orgoglio di ricostruire, L’Unità, 17 dicembre scorso), contano i partiti «come fattore guida della comunità». Per questo il Pd «dovrebbe andare a questa prova con più orgoglio». In fondo, uno statista supera «il test cruciale della leadership (il criterio di Mosè) quando sposta la sua società da un ambiente che le è familiare a un mondo che non ha mai conosciuto». Buone feste.

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